Il testo di yoga classico più conosciuto al mondo, studiato in tutti i corsi di formazione per insegnanti, citato dai più famosi maestri è un “libriccino” che racchiude gli insegnamenti che all’epoca del suo autore circolavano sullo yoga. Patanjali, o chi per lui, ha sistematizzato tutta una serie di pratiche, filosofie, precetti e credenze dello yoga, creando un sistema che ha gettato le basi per tutte le future forme di yoga che si sono necessariamente ispirate al suo lavoro, anche quelle che si sono sviluppate prendendone le distanze, basandosi su concetti anche molto lontani da quelli degli Yoga Sutra. Molti sono stati i commentari nati sia in ambito classico che moderno ispirati dagli insegnamenti di Patanjali e ancora oggi molti sono quelli che scrivono a riguardo. Questo mio articolo è un approfondimento di un altro che parla delle origini e dello sviluppo dello yoga tradizionale.

Non si può interessarsi di yoga senza conoscere Patanjali e i suoi Yoga Sutra. È come voler essere cristiani senza aver letto il vangelo. Sebbene non sia certo l’unico scritto tradizionale sullo yoga, è in assoluto il più famoso e il primo che ha osato dedicare un’opera sistematica alla disciplina dello yoga. Si tratta di un riassunto organico di ciò che era già conosciuto all’epoca dell’autore, la cui datazione ricordiamo essere abbastanza incerta. Questo per dire che il contenuto tratta di insegnamenti, pratiche, credenze e concetti che circolavano già da tempo per via orale (o tramite altri scritti finora non trovati) che possono risalire anche molto indietro nel tempo. Prima di questo testo, c’erano forme di yoga non molto ben definite, almeno da un punto di vista testuale, di cui ho parlato nel mio articolo sulle origini e lo sviluppo dello yoga. Con gli Yoga Sutra inizia l’era denominata yoga classico dagli studiosi e che si protrarrà fino al V secolo CE.
“Lo yoga (unione) è la soppressione delle modificazioni della mente”
Patanjali
Yoga Sutra: aforismi sullo yoga
Scritto fra il II secolo BCE e il V secolo CE, è una redazione completa e dettagliata delle tecniche yoga con un’impostazione filosofica (e soteriologica) che si allontana da quella precedente decisamente più mistica. Si tratta di un libro abbastanza breve, che riassume le conoscenze largamente diffuse dello yoga dell’epoca, principalmente trasmesse per via orale. Tutt’ora lo yoga moderno si basa su questo testo, interpretandolo a suo modo. Esso è diviso in 4 sezioni, dette pada: Samadhi Pada (congiunzione), Sadhana Pada (realizzazione), Vibhuti Pada (poteri) e Kaivalya Pada (separazione). Nel primo si espone come lo yoga possa portare al samadhi (beatitudine) grazie al quale si sperimenta un nuovo modo di vedere le cose e che porta alla liberazione dal samsara.
Gli otto anga
Nel secondo si definisce l’Ashtanga yoga, chiamato anche Raja yoga (la via regale): Patanjali, o chi per lui, racchiude tutto lo yoga in 8 passi (o anga, letteralmente “membra”) che hanno ordine di pratica e di importanza (per raggiungere il passo successivo si deve essere padroni del precedente), sebbene questi anga si compenetrino parzialmente fra di loro (si possono manifestare uno o più contemporaneamente). Queste otto membra dello yoga sono:
- Yama – le 5 astensioni
- Niyama – i 5 precetti
- Asana – posizione, postura
- Pranayama – controllo del respiro o espansione dell’energia vitale
- Pratyahara – ritiro dei sensi
- Dharana – concentrazione su un punto
- Dhyana – meditazione
- Samadhi – estasi
Vediamo ora nel dettaglio i singoli punti. Siccome Patanjali non spende troppe parole per descriverli, mi attengo all’interpretazione di Mircea Eliade in Yoga: Immortalità e Libertà.
Yama
Le astensioni, o restrizioni, sono 5. Sono semplici azioni e atteggiamenti da non perpetrare per una sana convivenza con gli altri, ma anche per il raggiungimento di un personale stato di coscienza più elevato definito da un non attaccamento alle cose materiali.
- Ahimsa: non violenza.
Sia a livello fisico che verbale. Coltivare un atteggiamento non violento porterà chi ci sta intorno a essere meno violento a sua volta. Non violenza verso uomini, donne, bambini ma anche animali. Da qua il vegetarianesimo di molti yogi e induisti in generale. - Satya: sincerità, genuinità.
Non essere falsi, non dire bugie, non fregare il prossimo e via dicendo. Vivere nella verità porterà lo yogi a rendere concrete e reali le cose che dice. - Asteya: non rubare.
Non impossessarsi delle cose degli altri, non desiderarle né invidiare il prossimo per i suoi possessi. Il non desiderio delle cose materiali porterà ad attirare beni preziosi e ricchezza. - Brahmacharya: essere in armonia con il Brahman.
I giovani studenti di religione o di vita spirituale si recavano da un maestro per imparare i riti e lo studio delle scritture. In quel frangente essi diventano dei bramachari e come tali erano chiamati a vivere in castità totale. La castità dona forza e vigore fisico e mentale. Alcuni maestri lo interpretano in modo meno restrittivo come “non abusare delle energie sessuali”, ovvero non sprecare inutilmente il seme con l’unico scopo di appagare il bieco desiderio di fare sesso, senza che esso sia arricchito da un sentimento o un’intenzione sacra. - Aparigraha: non attaccamento o non possesso.
Attaccarsi agli oggetti materiali, alle persone, alle situazioni non ci permette di crescere e soprattutto ci fa credere che abbiamo il potere di possedere cose, persone, situazioni. Ciò che non serve, è solo un peso che non ci permette di elevarci a stati di coscienza superiori.
Niyama
I precetti o le osservanze sono 5 anch’esse. Rappresentano delle discipline etiche da seguire per vivere una vita più piena e appagante con se stessi e di conseguenza con gli altri.
- Shauca: pulizia o purezza.
Innanzitutto del corpo, sia esteriormente che interiormente. Lavarsi quotidianamente, mantenere il corpo sano e pulito anche dentro, lavando i dotti nasali e l’intestino con specifiche tecniche yoga. Ma non solo pulizia fisica, anche dei pensieri, immagini, emozioni che diamo in pasto al nostro essere ogni giorno. - Santosha: appagamento o contentezza.
Sapersi accontentare di ciò che si ha, coltivare la contentezza, la tranquillità, la serenità, aiutandosi evitando eccitanti di ogni tipo: caffeina, alcol, certi tipi di droghe, di musica, di film, emozioni, luoghi e via dicendo. - Tapas: autodisciplina, fervore mistico o ascetismo.
Il significato etimologico di tapas è calore e indica l’austerità religiosa. All’interno dell’essere umano si può creare un fuoco sacro che corrisponde al fuoco reale del sacrificio vedico: si compie così un nuovo sacrificio, del tutto intimo, in cui si offrono le cose personali dello yogi, prime fra tutti le funzioni fisiologiche, soprattutto la respirazione (concetto approfondito nel quarto anga). - Svadhyaya: studio e applicazione.
Riferito soprattutto alle sacre scritture, ovvero i Veda. Ma in senso più ampio è studiare e interessarsi di tutto ciò che arricchisce la nostra conoscenza spirituale, sia tramite testi spirituali di ogni genere che conoscendo la vita dei maestri che ci hanno preceduto. - Ishvara Pranidhana: abbandono al Signore.
Patanjali non spiega chi sia questo Signore, se non chiamandolo con un nome di divinità generica, né dice quale sia il suo ruolo e la sua posizione rispetto all’uomo e all’universo. Sostiene solamente di affidarsi a questo essere supremo con fiducia, sapendo che si prenderà cura di noi.
Come si nota facilmente, questi primi 2 anga sono dei comuni e diffusi precetti etici e morali trans-religiosi. Sono la base per purificarsi e accedere alle successive fasi che portano alla liberazione. Nonostante la loro importanza basilare, non mi risulta che vengano insegnati nei corsi di yoga e spesso non sono neanche personalmente seguiti da chi lo insegna…
Asana
Asana vuol dire posizione. Quando Patanjali tratta questo argomento, non parla delle classiche posizioni di yoga che conosciamo noi oggi, ma si riferisce a un’unica posizione: quella da tenere in meditazione. Essa deve essere stabile e confortevole, di modo che il praticante possa tenerla a lungo tempo senza subire distrazioni. Eliade approfondisce dicendo che lo scopo di questo anga è sviluppare una immobilità corporea che si può interpretare come una concentrazione del corpo in un’unica postura: così facendo, si entra nella dimensione ultima della vita, ovvero la morte. Lo yoga, secondo Eliade, è una via verso la morte, fisica, psichica ed emotiva, in modo da raggiungere in vita e in stato cosciente l’esperienza del morire. Questo è l’iniziazione dello yoga: una volta morti in vita, si supera la morte e il terrore che genera.
Pranayama
Il prana è l’energia vitale, chiamata anche soffio. Ayama sta per allungamento, espansione. Si tratta di una serie di tecniche respiratorie in cui si arriva a padroneggiare il soffio vitale, il respiro, nelle sue 3 dimensioni: inspirazione, sospensione, espirazione, che possono essere prolungate e delicate. Come per l’asana, lo scopo è quello di concentrarci sul respiro di modo da renderlo controllato, ritmato fino a dilatarlo al punto da arrestarlo: lo yogi impara a raggiungere volontariamente uno stato di pre-morte arrivando a respirare in modo talmente dilatato che sembra non respirare affatto. Tramite queste tecniche si sperimentano in piena lucidità stati di coscienza alterati.
Pratyahara
Ritrazione dei sensi dagli oggetti, isolamento sensoriale, astrazione dal mondo. Questo il significato del quinto anga. Va inteso nel senso di approccio alla realtà, ovvero interiore, e non in quello esteriore di vivere in romitaggio. Ci si allena a portare l’attenzione all’interno di noi stessi, per arrivare a conoscere la nostra coscienza. Non permettiamo più agli oggetti esterni di influenzare i nostri sensi e così di distrarci dalla nostra ricerca interiore. Portata ai livelli estremi, questa tecnica permette di isolarsi anche dalla percezione del dolore fisico, è così che molti guru indiani affrontano prove fisiche estreme.

Il samyama: il dominio dello spirito
Dharana
Concentrazione su un punto. Viene fissata la coscienza su un qualcosa. Cosa sia questo qualcosa, Patanjali non lo spiega, parla semplicemente di un generico punto. Con questo anga entriamo nel cosiddetto samyama, ovvero il dominio dello spirito, formato dagli ultimi tre anga. Una volta che, tramite una vita morale impeccabile, la pratica delle asana, del controllo del respiro, della ritrazione dei sensi abbiamo costruito una base solida, possiamo finalmente dedicarci con successo alla prima delle 3 fasi del dominio dello spirito, la concentrazione su un punto.
Dhyana
Viene spesso tradotto con meditazione, anche se sarebbe più corretto usare contemplazione. Quando, grazie all’esercizio della concentrazione, si raggiunge uno stato di attenzione ininterrotta verso l’oggetto contemplato, siamo in contemplazione. Essa è un flusso di pensiero costante verso l’oggetto, che non viene interrotto da nessun altro pensiero. È ciò che oggi viene comunemente chiamato meditazione (da non confondere con la meditazione cristiana o filosofica di stampo occidentale). Da questo anga nasce il buddhismo Chan in Cina che poi diventa lo Zen in Giappone.
Samadhi
L’ultimo stadio, che viene tradotto con estasi. Si tratta della fusione fra il soggetto e l’oggetto della meditazione, in cui lo yogi perde totalmente la coscienza di sé per fondersi con la realtà Suprema. Questa fusione dona beatitudine estrema, liberazione da ogni forma di paura, separazione, ansia, agitazione. Lo yogi è tutt’uno col divino, ha finalmente piena coscienza del suo essere Dio e vede la realtà per quella che è, al di là di tempo, spazio e ogni forma di soggettività. Libero dal ciclo delle rinascite perché ha finalmente bruciato ogni forma di desiderio, non si reincarnerà più vivendo in questa beatitudine eterna.
Siddhi o le perfezioni
Secondo Patanjali, il progresso spirituale attraverso il cammino dello yoga, porta al raggiungimento di speciali poteri. A parte le siddhi realizzate dal controllo dei Niyama e degli Yama, ce ne sono altre:
- Ridurre il corpo alla grandezza di un atomo
- Espandere il corpo fino una taglia infinita
- Ridurre il peso quasi a zero
- Teletrasporto con il semplice uso della volontà
- Realizzare qualsiasi desiderio
- Supremazia sopra la natura
- Controllo delle forze naturali
Come si vede, sono dei veri e propri super poteri. Patanjali avverte che essi non sono il fine ma solo delle “conseguenze” all’avvicinarsi della realizzazione. Se uno si perde dietro questi poteri, si trova impossibilitato a raggiungere la liberazione; vengono, infatti, definiti ostacoli dall’autore degli Yoga Sutra.
La filosofia dualista degli Yoga Sutra
L’approccio dualistico
La visione metafisica dietro l’opera di Patanjali è quella della filosofia samkhya. Si tratta di una scuola sistematizzata intorno al IV sec. ma decisamente più antica. Si dice che sia stata la “madre” dello gnosi o che l’abbia fortemente influenzata. Infatti ritiene che la vita è sofferenza da cui possiamo liberarci con la conoscenza (gnosi). Approccio ateistico, ritiene che tutto l’Universo sia generato da due principi: i purusha, che altro non sono che gli spiriti delle individualità umane, monadi di numero infinito, e la prakriti, ovvero la materia. Queste due realtà sono ontologicamente equivalenti.
Il purusha è spettatore passivo e testimone silenzioso delle evoluzioni della materia: essa, infatti, nella sua costante imperfezione, si differenzia in vari livelli dal più grossolano al più sottile. La parte più elevata della prakriti è l’intelletto umano, o la coscienza. Mentre il purusha dona coscienza e vitalità alla creazione, è colui che conosce e non agisce. Per contro, la prakriti non ha coscienza e si limita ad agire ininterrottamente. Durante la nostra esistenza accade che il purusha erroneamente si identifichi con la prakriti e si attribuisca un dinamismo che gli è alieno; per contro la prakriti, nella forma della coscienza, si illuda di essere altro rispetto alla materia, ergendosi.
Scopo del samkhya è condurre l’individuo a conoscere l’esistenza di queste due realtà assolute, riconoscersi nel purusha e isolarsi dalla materia. Non grazie alla rivelazione, ma solo tramite il ragionamento e la conoscenza metafisica ci possiamo liberare. Fino a che l’ultimo purusha non si sarà liberato dal ciclo delle rinascite, l’Universo continuerà ciclicamente a ricrearsi e distruggersi. Lo stesso yoga di Patanjali ha questa visione dualistica dell’esistenza, con il purusha da un lato e la prakriti dall’altro, ma rispetto al samkhya sostiene che la liberazione è possibile principalmente tramite la pratica degli 8 anga. Per quanto interessante, questo approccio rimane dualistico e come tale non corrisponde con il mio personale pensiero sulla realtà, che invece e non duale. Ma questa è un’altra storia.
Conclusioni
Non ci vuole molto a capire quanto lo yoga classico descritto da Patanjali sia estremamente diverso da quello contemporaneo. Come si sia arrivati all’attuale forma di yoga posturale pieno di posizioni e contorsioni partendo da una disciplina così completa riguardo alla natura umana, in cui non solo non sono descritte le posizioni, ma si parla solo di una asana che è quella seduta, è in parte un mistero. E in parte un argomento affrontato nel mio articolo sullo yoga moderno. Oggi giorno c’è una forte tendenza ad applicare, non senza una grossa forzatura, questi precetti allo yoga posturale moderno, per esempio: ahimsa (non violenza); non forzare troppo quando stai praticando sul tappetino. Oppure: santosha (appagamento); accetta i tuoi limiti quando pratichi le asanas e non pretendere di essere perfetto. Giusto per fare due esempi banali di come oggi si cerchi di dare una dignità millenaria usando il testo più rappresentativo dello yoga classico a una disciplina sviluppatasi solo negli ultimi cento anni.